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Legittimità del patto di non concorrenza
La Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare ulteriormente i parametri da osservare per valutare la legittimità, o meno, del patto di non concorrenza.
La pronuncia della Suprema Corte si pone nel solco di alcune precedenti statuizioni del giudice di merito, secondo cui “La previsione del pagamento di un corrispettivo del patto di non concorrenza, durante il rapporto di lavoro e senza la individuazione di un corrispettivo minimo garantito, àncora la sua determinazione ad una circostanza fattuale, quale la durata del rapporto, del tutto imprevedibile e non rispetta così il disposto dell’art. 2125 c.c. e la disciplina generale in materia di oggetto del contratto, che deve essere determinato o determinabile al momento della stipulazione del patto” (Tribunale di Rieti n. 210/2020, Tribunale di Modena n. 89/2019).
Secondo il giudice di legittimità è fondamentale che le parti, al momento della stipulazione del patto di non concorrenza, prestino particolare attenzione a che il compenso risulti essere determinato o determinabile, e ciò a pena di nullità dell’intero patto di non concorrenza stesso.
La sentenza in esame, inoltre, appare di rilevante interesse anche nella parte in cui stabilisce che il patto di non concorrenza risulta inficiato da nullità laddove il diritto al compenso rimane ancorato all’unilaterale esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, circostanza da cui discende che il compenso non sia determinabile ex ante.
Posto tutto quanto sopra, pertanto, la pronuncia della Suprema Corte rappresenta un importante monito per le parti contrattuali nell’individuazione di un compenso che sia determinato e/o determinabile e proporzionato e congruo rispetto al sacrificio richiesto dal lavoratore ai fini della validità del patto di non concorrenza.
(Cassazione, sezione lavoro, ordinanza 19 aprile 2024, n. 10679)
Rilevanza di un ambiente lavorativo stressogeno ex art. 2087 c.c.
È configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima, a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento; è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie.
(Cassazione Sez. Lav., 7 giugno 2024, n. 15957)
Legge 104/1992-Attività estranee all'assistenza-Licenziamento
Costituisce giusta causa di licenziamento l'utilizzo di permessi ex lege n. 104 del 1992 per attività diverse dall'assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso.
La norma non consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui è preordinato: il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela.
Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto.